sabato 27 luglio 2019




PREMIO VASTO 2019: EMILIO TADINI TRA ARCHEOLOGIA E PITTURA

di Luigi Murolo

 

 
0.Più che soffermarmi sulla lettura di Superpop 20/21, il recente allestimento del Premio Vasto curato da Lorenzo Canova, il mio intervento si limita solo a qualche considerazione su di un’unica opera colà in mostra. Non può sfuggire il rapporto archeologia/pittura in una sede che accoglie un museo di antichità.

 
1. Archeologia (1973) di Emilio Tadini è il titolo dell’acrilico su tela esposto nell’attuale edizione del Premio Vasto (ma già presente nella 50a rassegna della stessa) [fig. 1]. Nei fatti, il motivo conduttore di tutta la rassegna. Che fin dal titolo sembra profilare la pratica di «scavo» effettuata dall’artista nell’ambito della storia dell’arte novecentesca e che, in chiave postmoderna, vuole restituirne la cifra nemmeno poi tanto segreta. E che cosa vuol definire? Forse una sorta di operazione di spoglio dei materiali formali dell’antichità in qualche modo assimilabile a quella condotta dai maestri medievali nei confronti dei resti romani riutilizzati proprio come res nella realizzazione delle cattedrali? No. Nulla di tutto questo. Al contrario. L’opera di Tadini pare rinviare a quell’orizzonte foucaultiano che prevede «la flessione delle parole» – cosa che, sul piano artistico, implica «la flessione delle forme» – (del resto, mi pare che sia questo l’indirizzo ermeneutico suggerito da Maurizio Calvesi). In altre parole, coglierne il filo in quell’ambito critico-artistico che presuppone il primato dell’analisi delle forme rispetto al sistema delle rappresentazioni. In questa chiave, l’“archeologia” si trova a porre al centro dell’interpretazione il tema dell’episteme (che potremmo tranquillamente definire codice) che identifica le strutture primitive e originali di un periodo con le successive pratiche discorsive e culturali.
 
Fig. 1   Emilio Tadini, Archeologia (1973)
acrilico su tela (cm 100x81)
Da tale punto di vista, tutta la postmodernità, mossa dal disincanto per le teleologie di ogni tipo e per ogni finalismo storico, affida alla citazione e al riuso delle forme moderne, le possibilità del proprio sussistere. Ed è con questo modello, con quell’Emilio Tadini che ne è stato geniale interprete, che la pop art italiana si trova a definire la propria modalità di essere-nel-mondo. Le forme non hanno un telos, un fine. Sono disponibili in ogni momento. Come le tutte le altre res.

Le combinazioni possibili tra queste sono infinite. Ma sono solo alcune che si affermano in un determinato periodo. Definibili come epistemi, configurano le strutture originali di una determinata epoca. Ma come si riconoscono per la Pop Art? Lo storico dell’arte Maurizio Calvesi procede in questi termini, a partire dagli anni Sessanta e dall’esperienza della cosiddetta Scuola romana di Piazza di Spagna: «De Chirico è stato molto amato dagli artisti della Pop Art che gli hanno reso omaggio in molti modi, da Ceroli a Festa, a Schifano, Marotta e Pascali, senza dimenticare Oldenburg, Lichtenstein o Warhol in America. Fu bellissimo quando de Chirico sembrò accettare quegli omaggi chiudendo la sua lunga e interessante fase barocca per iniziare lo splendido periodo della sua Neometafisica degli ultimi anni di vita, con un’esplosione di luce e una nuova felicità cromatica. I soli gialli sul cavalletto, i palloni e i giocattoli colorati, le liete cabine dei bagni misteriosi, i mobili nella valle, il mare di Ulisse che appare nella stanza sono entrati così in diretta sintonia con la Pop internazionale come un gioioso, giocoso e profondo segno di armonia». Ma nell’episteme del pop – sempre secondo Calvesi – è riscontrabile la stessa attiva presenza del futurismo di Umberto Boccioni.

Ora, se è questa la prospettiva «archeologica» che opera nelle tele di Emilio Tadini – e non abbiamo alcun motivo per dubitarne se è vero che l’opera di proprietà del Premio Vasto datata 1973 ha per titolo Archeologia –, è ancor più vero che, tra il 1967 e il 1972, l’artista realizza un ciclo di dipinti intitolato Archeologia con De Chirico. E in questo caso, va detto, che, rispetto all’acrilico vastese, qui è esplicito il richiamo alla lezione del maestro delle Muse inquietanti. Del resto, lo stesso De Chirico si era ispirato, con grandi fusioni da gesso in bronzo lucidato, al tema del Grande archeologo (un esemplare dei quali è stato esposto alle Scuderie d’Avalos in occasione della 50a edizione del Premo Vasto) [fig. 2]. Per questo artista, l’archeologo non era solo forma, ma anche contenuto. In lui era vivo lo spirito della modernità con la sua corrispondente dialettica. Nel cuore delle figure, prendevano corpo i resti dell’antichità. L’archeologo era realmente l’archeologo: colui che scopre la classicità nascosta riportandola alla luce. Come accade per la pittura metafisica che porta allo scoperto il lato non definito delle res. Cosa completamente diversa da Tadini che, fin dal titolo e nel riuso esplicito dei pezzi dechirichiani nelle opere realizzate tra il 1967 e il 1972, cerca il rifermento forte della pop art italiana (non ancora l’episteme). Ad esempio, nell’ultima retrospettiva sul pittore milanese recentemente allestita dalla Fondazione Marconi nella capitale lombarda (chiusa il 19 luglio di quest’anno, giorno inaugurale della mostra vastese), una tela restituisce senza alcun nascondimento la figura del Grande Archeologo [fig. 3]. Al contrario, l’acrilico vastese posseduto dal Premio Vasto – come già detto, datato 1973 – segna una netta rottura con il suo recente passato. Tadini opera una trasposizione metonimica del contenuto dechirichiano. Esso diventa esclusivamente forma che apre all’episteme della contemporaneità (da questo punto di vista sarà stata determinante la lettura de Le parole e le cose, il capolavoro di Michel Foucault pubblicato in Italia nel 1967. Magari con l’influenza interpretativa prospettata dal francese per Las meninas di Velázquez, non certo per quella suggerita da Picasso nel 1957. Ricordo, tra l’altro, che lo stesso Pasolini ne aveva offerto una splendida lettura in Che cosa sono le nuvole?, un corto del 1968).
 
 
Fig. 2   Giorgio De Chirico, Il grande archeologo (1970)
bronzo lucidato, fusione da gesso (cm 95x49,5x47)
 
Fig. 3   Emilio Tadini, Archeologia con De Chirico (1972)
acrilico su tela (cm 146x114)
E allora, mi chiedo: Foucault, dunque, alla base teoretica del pop tadiniano? Posso solo rispondere: le condizioni ci sono tutte.

lunedì 1 luglio 2019



TRA MERIDIANI E PARALLELI: IL MONUMENTO DI TERMOLI

di Luigi Murolo

 

Il monumento di Termoli
Intriga potere vedere tracciato sulla terra il segno visibile del punto immaginario che scandisce il tempo orario quotidiano dell’ex-sistere contemporaneo nell’Europa centro-occidentale (è il l’arco centrale della zona [UTC+1] compresa tra 7,5° E e 22,5° E che definisce la prima ora legale). Intriga il pensiero di poter trovare a pochi passi da noi, nella continua mutevolezza del piano sabbioso, la traccia concreta di quel punto di incontro tra meridiano e parallelo che la comunità scientifica ottocentesca ha riconosciuto essere il primo fuso orario dopo il meridiano zero di Greenwich. Singolare, insomma, poter osservare gli effetti di quella Conferenza internazionale dei meridiani tenuta a Washington nel 1884 che avrebbero trovato applicazione in Italia solo a partire dal 1° novembre 1893. In effetti, suddividere i gradi dei meridiani (360) per le ore di una giornata (24) fissa in 15° gradi lo standard per la definizione di un fuso. Sicché il primo fuso che si sarebbe riscontrato a est di Greenwich poteva essere solo il 15° meridiano che, attraversando Termoli, si ricongiunge all’Etna – il cosiddetto Termoli-Etna – (quello di Vasto, al contrario, è posto sulla long. 14°42’30” E). Come si può capire, parlo sempre del medesimo meridiano che, nella località di Rio Vivo, incrocia il 42° parallelo. Quello stesso parallelo dove è allineata Chicago e che, nella cultura nordamericana, è stato definito, «una linea mitica sulle mappe che taglia attraverso il cuore degli Stati Uniti». Vale a dire, un suggestivo richiamo al medesimo locus letterario che John Dos Passos aveva utilizzato per titolare l’omonimo suo romanzo sull’America del proibizionismo. Ricordo di aver letto il libro sul finire degli anni Sessanta, dopo aver seguito nel circolo del cinema della mia città un ciclo di film su Charlie Chaplin e sui tempi moderni. E una frase che mi aveva fortemente colpito (e in cui mi riconoscevo) recitava pressappoco in questi termini: «volevo essere a casa ma non avevo casa».
Il segno del meridiano Termoli-Etna
 

In effetti, nel magico titolo di Dos Passos, c’era tutto il senso dello spaesamento di un ragazzo alla ricerca di un qualcosa che non riusciva a afferrare. Un segno immaginario che fissava il proprio orizzonte di riferimento in un dove di cui ignorava la via. Ma quel diciottenne non avrebbe mai pensato di poterlo trovare, molto più avanti negli anni, visibile nelle vicinanze della città in cui abitava e in cui avrebbe continuato a abitare.

In ogni caso, di là dall’evocazione di suggestioni personali, il monumento eretto sulla spiaggia di Termoli va ben oltre la sua denominazione allusiva: «Il Sogno». È «Il Sogno» dell’A.G.I.T., (Associazione Geometri Italiani Topografi) che ha voluto realizzare sulla Terra il punto di incontro tra spazio e tempo, il qui e l’ora, l’hic et nunc, il «confine» che determina l’UTC, vale a dire il Tempo Coordinato Universale dell’Europa centro-occidentale che, in un punto dello spazio terrestre ben definito, regola il tempo civile di tutte le attività umane che si svolgono sul nostro pianeta.

Il segno del 42° parallelo
In buona sostanza, dal 5 aprile 2014, un’installazione realizzata in pietra lunare di m 7 d’altezza x m 4 di larghezza che sembra dare corporeità a ciò che Kant aveva chiamato forme dell’intuizione sensibile (spazio e tempo, per l’appunto), vale a dire le strutture apriori del soggetto che, nelle intuizioni dei dati sensibili, pongono le condizioni di conoscenza dell’oggetto. Vale a dire, il limite del conoscere postulato dalla ragione. Ma c’è di più. L’idea di confine che si realizza nel monumento termolese ha qualcosa di straordinariamente interessante che richiama alla memoria ciò che Heidegger ha espresso nel colloquio di Darmstadt del 1951 dal titolo Costruire, abitare, pensare: «Un confine non è quello che mette fine, ma come già intendevano i Greci, il confine è il dove del principio della presenza di una cosa». Già il principio dello spazio-tempo di Termoli comincia ad avere un dove, la presenza, nel momento in cui la sua traccia è fissata sulla Terra. Così come tutto ciò che esiste si definisce in base ai limiti che delineano una forma. Il monumento di Termoli è la forma dell’UTC+1 che lo rende intellegibile agli abitatori del tempo in uno spazio. E come tutte le idee, cominciano a sussistere nel momento in cui sono viste.

Ma riusciremo mai, noi contemporanei, a comprendere il senso di questa cosa? Per quanto mi par di capire, la domanda non ha risposta.

 

martedì 18 giugno 2019




 
A PROPOSITO DI FOTOGRAFIA OTTOCENTESCA:
MICHETTI A MIRACOLI DI CASALBORDINO:
di Luigi Murolo
 
Lo storpio

                                       


 
Com’è noto, della festa della Madonna dei Miracoli in quel di Casalbordino, la più grande rappresentazione letteraria resta quella di Gabriele D’Annunzio descritta nelle memorabili pagine di Trionfo della Morte (1894). Dedicata l’opera al gran sodale Francesco Paolo Michetti, essa trova restituzione iconica proprio nei formidabili reportage fotografici che, in varie fasi, il pittore di Francavilla realizza in poco più di un decennio – dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento fino agli inizi del Novecento (in particolare, dal 1895 al 1900) –. Funzionale alla restituzione su tela di un Abruzzo mitico, la camera fotografica michettiana indaga preminentemente l’antropologia dei rituali religiosi.

Più che seguire il meccanismo verista centrato sulla regressione dell’autore, Michetti legge la realtà umana di Casalbordino come sua interpretazione; l’interpretazione dell’artista. Sovrapponendosi in questo modo all’ “archeologia” attiva dell’antico cerimoniale originato dall’apparizione mariana al veggente di Pollutri Alessandro Muzii, egli vede le cose raffigurate come “fanatismo” popolare (in piena sintonia con la prospettiva ideologica dannunziana). Che connesso con il significato cristiano di festa (vale a dire solennità esclusivamente religiosa che congrega la multitudo fidelium per levar canti e preghiere insieme, sciogliere voti, impetrare grazie), restituisce plasticamente il gesto dei corpi che disegnano l’universo selvaggio della follia. Se è vero, infatti, che, nel mondo classico, il folle rappresentava la voce del divino, è ancor più vero che, per la décadence dannunzio-michettiana, l’occhio del pittore-fotografo scorge nella nuda vita dei corpi abbandonati il senso dell’homo sacer affidato al Dio pietoso. E qui, nelle immagini della decomposizione vivente della carne, la scrittura dannunziana di Trionfo della morte accompagna in controcanto la voce narrante:


«Era uno spettacolo meraviglioso e terribile, inopinato, dissimile ad ogni aggregazione già veduta di cose e di genti, composto di mescolanze così strane aspre e diverse che superava i più torbidi sogni prodotti dall’incubo».


Gli scatti michettiani hanno la forza di documentare quei resti “archeologici” immateriali delle arcaiche forme devozionali di pellegrinaggio sviluppatesi dopo il 1576, l’anno dell’apparizione – al settuagenario Muzio da Pollutri – della Vergine adagiata sopra un olivo e attorniata da un coro d’angeli. Un’immagine che lo stesso Pier Paolo Pasolini, in una sequenza di Edipo Re (1967), avrebbe utilizzato per restituire al mito ellenico – nel suo stile regressivo – l’incontro tra Edipo e l’Oracolo.
Una suggestione, insomma, ma solo una suggestione, che, pur nel disincanto della modernità, lo stesso visitatore odierno può provare nel rapporto personale che sa intessere con il genius loci.

Sulla Strada

Catasto onciario Monteodorisio