di Luigi Murolo
0. Vale la pena
tentare un percorso di indagine sulla storia delle biodiversità alimentari con
l’obiettivo del recupero delle specie in estinzione. Da questo punto di vista,
la cosiddetta Uva del Vasto costituisce l’argomento del presente
intervento. Grazie alle celeberrime illustrazioni di Giorgio Gallesio per la
Pomona Italiana ossia Trattato degli alberi fruttiferi (Pisa 1817-1839) [fig.
1] oppure alla ceroplastica in alabastro di Francesco Garnier Valletti che
ho fotografato nei musei degli Istituti agrari di Firenze e di Todi [fig. 2]
è possibile avere memoria iconografica di alcune specie oggi scomparse.
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Fig. 1: Giorgio Gallesio, Pomona Italiana (1817-1839), ill. di vitigno Barbera |
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Fig. 2: Firenze, Istituto agrario, Museo della frutta. Pomario in ceroplastica di Francesco Garnier Valletti |
Ma se è vero che
attraverso il modellismo pomologico la produzione artistica ha salvato in copia
(divenuta originale) l’autentico prodo tto perduto oggi occorre ricorrere
all’Unesco perché il patrimonio culturale immateriale possa trovare la
necessaria conservazione. Per la prima volta, nel 2017, un pezzo d’Abruzzo è
diventato patrimonio culturale dell’umanità: sto parlando dei cinque nuclei di
antiche faggete ricadenti in un’area di 937 ha. comprese tra i comuni di Lecce
nei Marsi (Moricento), Opi (Val Fondillo-Valle Iancino), Pescasseroli (Coppo
del Principe, Coppo del Morto), Villavallelonga (Valle Cervara). Sono diventati
patrimonio mondiale nel contesto delle Faggete primordiali dei faggi dei
Carpazi e di altre regioni d’Europa. E se è vero che non tutto è riconducibile
al capitale humanis generi (che non è il titolo di un’enciclica), a
quello di una comunità, sì! In tal senso, se grazie a Slow Food è stata
garantita la tutela dei pomodori mezzitempo di Vasto, anche la sua uva
autoctona, la san Francesco, esige la medesima forza di presidio. Un’
associazione come la Pro Loco può certamente svolgere un’azione
propositiva. Le pagine che seguono vogliono assolvere a tale funzione.
1. L’anno è il 1839.
In una memoria per gli «Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze Naturali di
Catania» (tip. Di Riggio, 1839), l’abate Giovacchino Geremia pubblica una
memoria dal lungo titolo: Continuazione del Vertunno etneo ovvero
staifulegrafia storia della varietà delle varietà delle uve che trovansi nel
d’intorno dell’Etna. A essa fa seguire un’Appendice al Vertunno etneo.
Confronto tra le uve etnee e quelle di Napoli con talune dal Gallesio descritte
in cui afferma: «Uva del Vasto di eccellente qualità, somiglia alla
Imperiale bianca» (p. 66). Si tratta (per quanto ne sappia) della prima
attestazione di questa cultivar con tale nome. Quasi non bastasse, per lo
stesso prelato, il vitigno in questione diventa riferimento di un altro: «[Uva]
Marocca quasi somigliante a quella del Vasto, ma più rotonda e con acino
pingue, a differenza della prima che ha bacche assai grosse» (p. 68)
Cinque anni più tardi
– nel 1844 –, il botanico napoletano Guglielmo Gasparrini propone la seguente
descrizione ampelografica per l’Uva del Vasto da tavola (coltivata, ovviamente,
a Napoli): «grappoli grandi, acini grossi, duracini, carnosi, bianchi. Comincia
a maturare nella fine di Agosto e si mantiene per l’inverno. Si coltiva in
parecchi giardini» (in Su le viti e le vigne del Distretto di Napoli, in
«Annali Civili del Regno», fasc. LXIX, maggio/giugno 1844, p. 2). Considera,
tra l’altro, questa cultivar con altre facenti parte di un contesto di qualità:
«Uva del Vasto, Sanginella nera e bianca, Inzolia, Catalanesca, Uva rosa, Uva
pruna, Falanchina, Marrocca, Zuccherina, Cannamele, Persana, Salamanna,
Moscadella, Barletta» (in Ibid., p. 4). Quasi non bastasse, Guglielmo
Gasparrini, l’anno successivo, torna sullo stesso tema in un altro scritto con
queste parole: «Le migliori uve mangerecce per la loro qualità sono la
moscadella, una varietà della Salamanna domandata volgarmente moscadellona, la
sanginella che ci pare non si trovi in altre parti d’Italia, la pignola detta
glianica dai Napoletani; seguitano la corniola, la catalanesca, la groia,
quella detta del Vasto, ed altre» (in Breve ragguaglio dell’agricoltura e
pastorizia del Regno di Napoli di qua dal Faro, Napoli, Tip. Del Filialtre
Sebezia, 1845, pp. 29-30).
Ora, come già detto,
per rendere più sicura l’identificazione della cultivar in Sicilia (forse
perché rara nell’Isola), l’abate Giovacchino Geremia parla di una somiglianza
dell’Uva del Vasto con l’Imperiale bianca. Ma per sapere che cosa fosse
quest’ultima, dobbiamo ricorrere a un trattato agronomico siciliano del
Seicento che scioglie definitivamente il problema. Sto parlando dell’Hortus
catholicus di Francesco Cuppari pubblicato a Napoli (Neapoli, ap.
Franciscum Benzi, 1696. Aggiungo che la copia consultata proviene dalla
Biblioteca di Baviera). L’autore ordina alfabeticamente la materia. E solo
quando discute dei singoli vitigni precisa con stile ampelografico: «Vitis
mediocribus vinaceis, durulis, oblongis, candido fulvis, sapidis. Vulgo Inzolia
vranca. Eadem racemo et granis majoribus, flavescentibus, sapidioribus. Vulgo
Inzolia Impiriali ò di Napuli. Eadem maiori, nigro fructu, suaui in ore, ac
liquabili. Vulgo Inzolia nigra» (in Ibid. p. 232). Il che vuol dire:
«Vite con mediocri vinacce, piuttosto dure, rosso bianche, sapide. Dal volgo
chiamata Inzolia vranca [bianca]. Dallo stesso racemo [si trova] ma con acini
più grandi, biondo rossastri e più sapidi [ciò che è chiamata] dal volgo Inzolia
Imperiale o di Napoli. E da un racemo più grande, con acini neri, soave e
liquabile in bocca [ciò che è chiamata] dal volgo Inzolia nera». Grazie alla
mediazione ampelografica degli antichi botanici siciliani, sappiamo che l’Uva
del Vasto risulta simile alla cultivar dell’Inzolia. Essendo, pertanto, una
varietà dell’Inzolia, l’Uva del Vasto dovrebbe essere classificata come
Ansonica (nome ufficiale delle Inzolie) nel Catalogo nazionale delle varietà
ad uve da vino [fig. 3].
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Fig. 3: uva Inzolia |
Ma se fino a questo
momento l’interesse è stato centrato sulla cultivar, occorre adesso parlare
della sua topicità; e cioè, del suo luogo di origine. In effetti, non
credo che gli agronomi ottocenteschi si riferissero a Vasto, la città che, in
quel tempo, il vulgo chiamava Lu Huàštǝ Mammónǝ. In realtà, per i
napoletani e per gli stessi siciliani, Il Vasto era un quartiere
metropolitano della città partenopea (abitato dagli Avalos). Ciò lo si
comprende dal fatto che gli scritti del Gasparrini parlano delle uve coltivate
nel distretto di Napoli, non nel Regno. L’unica testimonianza che connette
l’Uva del Vasto con l’omonima città è dovuta a Luigi Marchesani che identifica
quella cultivar con l’altra in loco chiamata Uva San Francesco. Nei
fatti, è lo stesso medico-umanista a precisare: «[…] è la nostra trapiantata
ne’ dintorni di Napoli, che fornisce alla Capitale la dolcissima grossa e
bianca uva di S. Francesco, venduta quivi col nome di uva del Vasto» (Storia
di Vasto città in Apruzzo Citeriore, Napoli, Torchi dell’Osservatore
medico, 1838/41, p. 161). La topicità del vitigno è basata solo su questo passo
(di per sé rilevante). A ben vedere, lo stesso memorialista vastese Nicola
Alfonso Viti (1600-1649) nulla dice sulla denominazione della cultivar. Va osservato
però che, quando lo storico seicentesco scrive, segnala un vitigno solo da poco
introdotto che produce un’uva particolare (grappoli e acini). Così facendo, non
solo consente di fissare nel corso del Cinquecento un’importante attestazione
della pianta nella città (la più antica si rileva in un protocollo di notar
Robio del 3 dicembre 1547) oltre che di indicare tanto la località di origine
quanto lo stesso nome del produttore: «Tra le sorte d’Uve se ne vede una, che
fa grappoli maravigliosi crescendo l’acino alla forma d’un ovo di colomba nella
Vigna di Stefano del Monte hoggi posseduta dagl’Eredi di Gio: Battista Ricci
nella contrada di Santo Biagio» (Memoria dell’Antichità del Vasto, in L.
Marchesani, Esposizione degli oggetti raccolti nel Gabinetto archeologico
comunale del Vasto, Chieti, Tip. Vella, 1857, fasc. III, p. 29). Aggiungo.
Il riferimento più datato nel tempo su di un del Monte vastese – Augustino,
marito di Vicenzina de Thomaso e padre di Io.Cola – l’ho rinvenuto sul Liber
baptizatorum Ecclesiae Sanctae Mariae Maioris 1565-1598 al dì 10 maggio
1573 (c. 33a).
Ora, stando a quanto
scrive Giovanni Dalmasso (con Marescalchi) nella sua monumentale (in tre
volumi) Storia della vite e del vino in Italia, Milano, Unione Italiana
Vini, 1931, 1933, 1937), la già citata Inzolia imperiale ha la sua
corrispettiva in Abruzzo con la cosiddetta Ortonese (in dialetto pruvulónǝ,
pergolone). Infatti, l’abate Geremia parlava di somiglianza, non di identità
tra uva del Vasto e Inzolia imperiale. Ciò vuol dire che per la san
Francesco si parla di varietà autoctona rispetto a una famiglia. Da questo
punto di vista non è nemmeno possibile ipotizzare relazioni tra il prodotto
vastese con i vitigni attestati negli Statuti di Lanciano del 1592. Il
capitolo 87 del documento, pur proponendo la nomenclatura di ben cinque qualità
commerciate nel sec. XVI, non consente di individuare rapporti con eventuali
Inzolie dell’epoca: «Item è posto et ordinato che non sia persona alcuna tanto
cittadina quanto forastiera, tanto di Feria tanto d’altro tempo, ardisca né
presuma vendere altra sorte d’uva che di Moscatello pergolo uva Pane uva
Donnola Precoccio et Malvasia senza licentia del Sindico, il quale sia tenuta
darla gratis et che riconosca la qualità delle persone, acciò sappia d’onde
l’hanno havuta sotto pena, sotto pena di un carlino per chi contrafara» [fig.
4]
Dico subito che non
entro nel merito di questi vitigni su cui tornerò in altra occasione. Ciò che,
al contrario, interessa è l’annotazione per cui, tra i tanti vitigni esistenti,
la città di Lanciano ne ammette solo cinque, (Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva
donnola, Precoccio, Malvasia), escludendo gli altri. Ecco allora l’aspetto
rilevante. Lo statuto in questione lega alla sola commercializzazione del
prodotto l’indicazione filogenetica del vitigno. Sappiamo, inoltre, che, sulla
base del Libro degli affitti (1747) della Camera Baronale di Castiglione
alla Pescara (oggi a Casauria) si pagava l’affitto «per il Moscatello alle
Coste di San Felice»; non sappiamo, però, se si tratta della stessa specie di
quella menzionata a Lanciano. In buona sostanza, nell’un caso o nell’altro, va
sempre ricordato che il moscatello, insieme con le altre cultivar menzionate in
questo intervento, aprono a un tentativo di restituzione storica della
biodiversità agricolo-commerciale della vite in Abruzzo.
Le cultivar di cui stiamo parlando sono state vinificate in passato. Anzi, sulla base dei protocolli del notaio vastese del Cinquecento Gio.Battista Robio stipulati tra contraenti del traffico interadriatico Vasto-costa Dalmata ho potuto ricostruire una breve classificazione valutativa sul gusto, circa l’antico vino commercializzato (con il linguaggio tipico dell'assaggiatore, non del sommelier): «3 dicembre 1547, 6a ind. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 19 marzo 1548, 6a ind. / vini boni et clari; 5 aprile 1548, vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 21 luglio 1548, vini boni clari boni coloris meliorisque saporis; 12 Januarij 1551, vini boni clari et boni coloris ac saporis; 9 martij 1551 vini boni clari bonique coloris et saporis; Die 9 mensis mai 1551 vini boni clari. Ciò vuol dire che, rispetto a questi atti, il sommelier contemporaneo si troverà di fronte ai seguenti indicatori: (dal più complesso al più semplice) 1. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 2. vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 3. vini boni clari bonique coloris et saporis; 4. boni clari (per brusco – come profilato al punto 1 – si intende acidulo, aspro di sapore).
Occorre rilevare, tra l’altro, che la Carta dei Suoli della Regione Abruzzo scala 1:250000 (2006) individua, dal punto di vista pedologico, l’area di contrada San Biagio (originaria dell’uva del Vasto) come «superfici terrazzate sommitali ampie, reincise. Substrati costituiti da sedimenti ghiaioso-sabbiosi». Ciò implica che, sul piano agricolo, quei suoli costituiscono l’83% del totale, con il 54% destinato all’arborato (uliveti e vigne). Le stesse aree con le cultivar superstiti della San Francesco (dagli ultimi ortolani che la conoscono chiamata la francese) segnalatemi dall’amico produttore vitivinicolo Domenico La Palombara sono localizzate alla Canale (molto importanti risulterebbero altre identificazioni), i cui terreni rispondono alla stessa classe pedologica. Le foto inviatemi da Domenico sono relative alla fase di invaiatura (III decade di luglio), in attesa della maturazione (I decade di settembre) [fig. 5].
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Fig. 5: Vasto, loc. La Canale: uva San Francesco (invaiatura) |
E proprio qui, dall’invaiatura, mi auguro che possa iniziare un nuovo percorso per questo sconosciuto (ai più) «liquore di Dioniso».