sabato 27 luglio 2019




PREMIO VASTO 2019: EMILIO TADINI TRA ARCHEOLOGIA E PITTURA

di Luigi Murolo

 

 
0.Più che soffermarmi sulla lettura di Superpop 20/21, il recente allestimento del Premio Vasto curato da Lorenzo Canova, il mio intervento si limita solo a qualche considerazione su di un’unica opera colà in mostra. Non può sfuggire il rapporto archeologia/pittura in una sede che accoglie un museo di antichità.

 
1. Archeologia (1973) di Emilio Tadini è il titolo dell’acrilico su tela esposto nell’attuale edizione del Premio Vasto (ma già presente nella 50a rassegna della stessa) [fig. 1]. Nei fatti, il motivo conduttore di tutta la rassegna. Che fin dal titolo sembra profilare la pratica di «scavo» effettuata dall’artista nell’ambito della storia dell’arte novecentesca e che, in chiave postmoderna, vuole restituirne la cifra nemmeno poi tanto segreta. E che cosa vuol definire? Forse una sorta di operazione di spoglio dei materiali formali dell’antichità in qualche modo assimilabile a quella condotta dai maestri medievali nei confronti dei resti romani riutilizzati proprio come res nella realizzazione delle cattedrali? No. Nulla di tutto questo. Al contrario. L’opera di Tadini pare rinviare a quell’orizzonte foucaultiano che prevede «la flessione delle parole» – cosa che, sul piano artistico, implica «la flessione delle forme» – (del resto, mi pare che sia questo l’indirizzo ermeneutico suggerito da Maurizio Calvesi). In altre parole, coglierne il filo in quell’ambito critico-artistico che presuppone il primato dell’analisi delle forme rispetto al sistema delle rappresentazioni. In questa chiave, l’“archeologia” si trova a porre al centro dell’interpretazione il tema dell’episteme (che potremmo tranquillamente definire codice) che identifica le strutture primitive e originali di un periodo con le successive pratiche discorsive e culturali.
 
Fig. 1   Emilio Tadini, Archeologia (1973)
acrilico su tela (cm 100x81)
Da tale punto di vista, tutta la postmodernità, mossa dal disincanto per le teleologie di ogni tipo e per ogni finalismo storico, affida alla citazione e al riuso delle forme moderne, le possibilità del proprio sussistere. Ed è con questo modello, con quell’Emilio Tadini che ne è stato geniale interprete, che la pop art italiana si trova a definire la propria modalità di essere-nel-mondo. Le forme non hanno un telos, un fine. Sono disponibili in ogni momento. Come le tutte le altre res.

Le combinazioni possibili tra queste sono infinite. Ma sono solo alcune che si affermano in un determinato periodo. Definibili come epistemi, configurano le strutture originali di una determinata epoca. Ma come si riconoscono per la Pop Art? Lo storico dell’arte Maurizio Calvesi procede in questi termini, a partire dagli anni Sessanta e dall’esperienza della cosiddetta Scuola romana di Piazza di Spagna: «De Chirico è stato molto amato dagli artisti della Pop Art che gli hanno reso omaggio in molti modi, da Ceroli a Festa, a Schifano, Marotta e Pascali, senza dimenticare Oldenburg, Lichtenstein o Warhol in America. Fu bellissimo quando de Chirico sembrò accettare quegli omaggi chiudendo la sua lunga e interessante fase barocca per iniziare lo splendido periodo della sua Neometafisica degli ultimi anni di vita, con un’esplosione di luce e una nuova felicità cromatica. I soli gialli sul cavalletto, i palloni e i giocattoli colorati, le liete cabine dei bagni misteriosi, i mobili nella valle, il mare di Ulisse che appare nella stanza sono entrati così in diretta sintonia con la Pop internazionale come un gioioso, giocoso e profondo segno di armonia». Ma nell’episteme del pop – sempre secondo Calvesi – è riscontrabile la stessa attiva presenza del futurismo di Umberto Boccioni.

Ora, se è questa la prospettiva «archeologica» che opera nelle tele di Emilio Tadini – e non abbiamo alcun motivo per dubitarne se è vero che l’opera di proprietà del Premio Vasto datata 1973 ha per titolo Archeologia –, è ancor più vero che, tra il 1967 e il 1972, l’artista realizza un ciclo di dipinti intitolato Archeologia con De Chirico. E in questo caso, va detto, che, rispetto all’acrilico vastese, qui è esplicito il richiamo alla lezione del maestro delle Muse inquietanti. Del resto, lo stesso De Chirico si era ispirato, con grandi fusioni da gesso in bronzo lucidato, al tema del Grande archeologo (un esemplare dei quali è stato esposto alle Scuderie d’Avalos in occasione della 50a edizione del Premo Vasto) [fig. 2]. Per questo artista, l’archeologo non era solo forma, ma anche contenuto. In lui era vivo lo spirito della modernità con la sua corrispondente dialettica. Nel cuore delle figure, prendevano corpo i resti dell’antichità. L’archeologo era realmente l’archeologo: colui che scopre la classicità nascosta riportandola alla luce. Come accade per la pittura metafisica che porta allo scoperto il lato non definito delle res. Cosa completamente diversa da Tadini che, fin dal titolo e nel riuso esplicito dei pezzi dechirichiani nelle opere realizzate tra il 1967 e il 1972, cerca il rifermento forte della pop art italiana (non ancora l’episteme). Ad esempio, nell’ultima retrospettiva sul pittore milanese recentemente allestita dalla Fondazione Marconi nella capitale lombarda (chiusa il 19 luglio di quest’anno, giorno inaugurale della mostra vastese), una tela restituisce senza alcun nascondimento la figura del Grande Archeologo [fig. 3]. Al contrario, l’acrilico vastese posseduto dal Premio Vasto – come già detto, datato 1973 – segna una netta rottura con il suo recente passato. Tadini opera una trasposizione metonimica del contenuto dechirichiano. Esso diventa esclusivamente forma che apre all’episteme della contemporaneità (da questo punto di vista sarà stata determinante la lettura de Le parole e le cose, il capolavoro di Michel Foucault pubblicato in Italia nel 1967. Magari con l’influenza interpretativa prospettata dal francese per Las meninas di Velázquez, non certo per quella suggerita da Picasso nel 1957. Ricordo, tra l’altro, che lo stesso Pasolini ne aveva offerto una splendida lettura in Che cosa sono le nuvole?, un corto del 1968).
 
 
Fig. 2   Giorgio De Chirico, Il grande archeologo (1970)
bronzo lucidato, fusione da gesso (cm 95x49,5x47)
 
Fig. 3   Emilio Tadini, Archeologia con De Chirico (1972)
acrilico su tela (cm 146x114)
E allora, mi chiedo: Foucault, dunque, alla base teoretica del pop tadiniano? Posso solo rispondere: le condizioni ci sono tutte.

sabato 13 luglio 2019

L’UVA «SAN FRANCESCO». PER IL RECUPERO DI UNA CULTIVAR VASTESE IN ESTINZIONE


di Luigi Murolo


0. Vale la pena tentare un percorso di indagine sulla storia delle biodiversità alimentari con l’obiettivo del recupero delle specie in estinzione. Da questo punto di vista, la cosiddetta Uva del Vasto costituisce l’argomento del presente intervento. Grazie alle celeberrime illustrazioni di Giorgio Gallesio per la Pomona Italiana ossia Trattato degli alberi fruttiferi (Pisa 1817-1839) [fig. 1] oppure alla ceroplastica in alabastro di Francesco Garnier Valletti che ho fotografato nei musei degli Istituti agrari di Firenze e di Todi [fig. 2] è possibile avere memoria iconografica di alcune specie oggi scomparse.



Fig. 1: Giorgio Gallesio, Pomona Italiana (1817-1839), ill. di vitigno Barbera

Fig. 2: Firenze, Istituto agrario, Museo della frutta. Pomario in ceroplastica di Francesco Garnier Valletti
 Ma se è vero che attraverso il modellismo pomologico la produzione artistica ha salvato in copia (divenuta originale) l’autentico prodo tto perduto oggi occorre ricorrere all’Unesco perché il patrimonio culturale immateriale possa trovare la necessaria conservazione. Per la prima volta, nel 2017, un pezzo d’Abruzzo è diventato patrimonio culturale dell’umanità: sto parlando dei cinque nuclei di antiche faggete ricadenti in un’area di 937 ha. comprese tra i comuni di Lecce nei Marsi (Moricento), Opi (Val Fondillo-Valle Iancino), Pescasseroli (Coppo del Principe, Coppo del Morto), Villavallelonga (Valle Cervara). Sono diventati patrimonio mondiale nel contesto delle Faggete primordiali dei faggi dei Carpazi e di altre regioni d’Europa. E se è vero che non tutto è riconducibile al capitale humanis generi (che non è il titolo di un’enciclica), a quello di una comunità, sì! In tal senso, se grazie a Slow Food è stata garantita la tutela dei pomodori mezzitempo di Vasto, anche la sua uva autoctona, la san Francesco, esige la medesima forza di presidio. Un’ associazione come la Pro Loco può certamente svolgere un’azione propositiva. Le pagine che seguono vogliono assolvere a tale funzione.

1. L’anno è il 1839. In una memoria per gli «Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze Naturali di Catania» (tip. Di Riggio, 1839), l’abate Giovacchino Geremia pubblica una memoria dal lungo titolo: Continuazione del Vertunno etneo ovvero staifulegrafia storia della varietà delle varietà delle uve che trovansi nel d’intorno dell’Etna. A essa fa seguire un’Appendice al Vertunno etneo. Confronto tra le uve etnee e quelle di Napoli con talune dal Gallesio descritte in cui afferma: «Uva del Vasto di eccellente qualità, somiglia alla Imperiale bianca» (p. 66). Si tratta (per quanto ne sappia) della prima attestazione di questa cultivar con tale nome. Quasi non bastasse, per lo stesso prelato, il vitigno in questione diventa riferimento di un altro: «[Uva] Marocca quasi somigliante a quella del Vasto, ma più rotonda e con acino pingue, a differenza della prima che ha bacche assai grosse» (p. 68)
Cinque anni più tardi – nel 1844 –, il botanico napoletano Guglielmo Gasparrini propone la seguente descrizione ampelografica per l’Uva del Vasto da tavola (coltivata, ovviamente, a Napoli): «grappoli grandi, acini grossi, duracini, carnosi, bianchi. Comincia a maturare nella fine di Agosto e si mantiene per l’inverno. Si coltiva in parecchi giardini» (in Su le viti e le vigne del Distretto di Napoli, in «Annali Civili del Regno», fasc. LXIX, maggio/giugno 1844, p. 2). Considera, tra l’altro, questa cultivar con altre facenti parte di un contesto di qualità: «Uva del Vasto, Sanginella nera e bianca, Inzolia, Catalanesca, Uva rosa, Uva pruna, Falanchina, Marrocca, Zuccherina, Cannamele, Persana, Salamanna, Moscadella, Barletta» (in Ibid., p. 4). Quasi non bastasse, Guglielmo Gasparrini, l’anno successivo, torna sullo stesso tema in un altro scritto con queste parole: «Le migliori uve mangerecce per la loro qualità sono la moscadella, una varietà della Salamanna domandata volgarmente moscadellona, la sanginella che ci pare non si trovi in altre parti d’Italia, la pignola detta glianica dai Napoletani; seguitano la corniola, la catalanesca, la groia, quella detta del Vasto, ed altre» (in Breve ragguaglio dell’agricoltura e pastorizia del Regno di Napoli di qua dal Faro, Napoli, Tip. Del Filialtre Sebezia, 1845, pp. 29-30).
Ora, come già detto, per rendere più sicura l’identificazione della cultivar in Sicilia (forse perché rara nell’Isola), l’abate Giovacchino Geremia parla di una somiglianza dell’Uva del Vasto con l’Imperiale bianca. Ma per sapere che cosa fosse quest’ultima, dobbiamo ricorrere a un trattato agronomico siciliano del Seicento che scioglie definitivamente il problema. Sto parlando dell’Hortus catholicus di Francesco Cuppari pubblicato a Napoli (Neapoli, ap. Franciscum Benzi, 1696. Aggiungo che la copia consultata proviene dalla Biblioteca di Baviera). L’autore ordina alfabeticamente la materia. E solo quando discute dei singoli vitigni precisa con stile ampelografico: «Vitis mediocribus vinaceis, durulis, oblongis, candido fulvis, sapidis. Vulgo Inzolia vranca. Eadem racemo et granis majoribus, flavescentibus, sapidioribus. Vulgo Inzolia Impiriali ò di Napuli. Eadem maiori, nigro fructu, suaui in ore, ac liquabili. Vulgo Inzolia nigra» (in Ibid. p. 232). Il che vuol dire: «Vite con mediocri vinacce, piuttosto dure, rosso bianche, sapide. Dal volgo chiamata Inzolia vranca [bianca]. Dallo stesso racemo [si trova] ma con acini più grandi, biondo rossastri e più sapidi [ciò che è chiamata] dal volgo Inzolia Imperiale o di Napoli. E da un racemo più grande, con acini neri, soave e liquabile in bocca [ciò che è chiamata] dal volgo Inzolia nera». Grazie alla mediazione ampelografica degli antichi botanici siciliani, sappiamo che l’Uva del Vasto risulta simile alla cultivar dell’Inzolia. Essendo, pertanto, una varietà dell’Inzolia, l’Uva del Vasto dovrebbe essere classificata come Ansonica (nome ufficiale delle Inzolie) nel Catalogo nazionale delle varietà ad uve da vino [fig. 3].


Fig. 3: uva Inzolia
Ma se fino a questo momento l’interesse è stato centrato sulla cultivar, occorre adesso parlare della sua topicità; e cioè, del suo luogo di origine. In effetti, non credo che gli agronomi ottocenteschi si riferissero a Vasto, la città che, in quel tempo, il vulgo chiamava Lu Huàštǝ Mammónǝ. In realtà, per i napoletani e per gli stessi siciliani, Il Vasto era un quartiere metropolitano della città partenopea (abitato dagli Avalos). Ciò lo si comprende dal fatto che gli scritti del Gasparrini parlano delle uve coltivate nel distretto di Napoli, non nel Regno. L’unica testimonianza che connette l’Uva del Vasto con l’omonima città è dovuta a Luigi Marchesani che identifica quella cultivar con l’altra in loco chiamata Uva San Francesco. Nei fatti, è lo stesso medico-umanista a precisare: «[…] è la nostra trapiantata ne’ dintorni di Napoli, che fornisce alla Capitale la dolcissima grossa e bianca uva di S. Francesco, venduta quivi col nome di uva del Vasto» (Storia di Vasto città in Apruzzo Citeriore, Napoli, Torchi dell’Osservatore medico, 1838/41, p. 161). La topicità del vitigno è basata solo su questo passo (di per sé rilevante). A ben vedere, lo stesso memorialista vastese Nicola Alfonso Viti (1600-1649) nulla dice sulla denominazione della cultivar. Va osservato però che, quando lo storico seicentesco scrive, segnala un vitigno solo da poco introdotto che produce un’uva particolare (grappoli e acini). Così facendo, non solo consente di fissare nel corso del Cinquecento un’importante attestazione della pianta nella città (la più antica si rileva in un protocollo di notar Robio del 3 dicembre 1547) oltre che di indicare tanto la località di origine quanto lo stesso nome del produttore: «Tra le sorte d’Uve se ne vede una, che fa grappoli maravigliosi crescendo l’acino alla forma d’un ovo di colomba nella Vigna di Stefano del Monte hoggi posseduta dagl’Eredi di Gio: Battista Ricci nella contrada di Santo Biagio» (Memoria dell’Antichità del Vasto, in L. Marchesani, Esposizione degli oggetti raccolti nel Gabinetto archeologico comunale del Vasto, Chieti, Tip. Vella, 1857, fasc. III, p. 29). Aggiungo. Il riferimento più datato nel tempo su di un del Monte vastese – Augustino, marito di Vicenzina de Thomaso e padre di Io.Cola – l’ho rinvenuto sul Liber baptizatorum Ecclesiae Sanctae Mariae Maioris 1565-1598 al dì 10 maggio 1573 (c. 33a).
Ora, stando a quanto scrive Giovanni Dalmasso (con Marescalchi) nella sua monumentale (in tre volumi) Storia della vite e del vino in Italia, Milano, Unione Italiana Vini, 1931, 1933, 1937), la già citata Inzolia imperiale ha la sua corrispettiva in Abruzzo con la cosiddetta Ortonese (in dialetto pruvulónǝ, pergolone). Infatti, l’abate Geremia parlava di somiglianza, non di identità tra uva del Vasto e Inzolia imperiale. Ciò vuol dire che per la san Francesco si parla di varietà autoctona rispetto a una famiglia. Da questo punto di vista non è nemmeno possibile ipotizzare relazioni tra il prodotto vastese con i vitigni attestati negli Statuti di Lanciano del 1592. Il capitolo 87 del documento, pur proponendo la nomenclatura di ben cinque qualità commerciate nel sec. XVI, non consente di individuare rapporti con eventuali Inzolie dell’epoca: «Item è posto et ordinato che non sia persona alcuna tanto cittadina quanto forastiera, tanto di Feria tanto d’altro tempo, ardisca né presuma vendere altra sorte d’uva che di Moscatello pergolo uva Pane uva Donnola Precoccio et Malvasia senza licentia del Sindico, il quale sia tenuta darla gratis et che riconosca la qualità delle persone, acciò sappia d’onde l’hanno havuta sotto pena, sotto pena di un carlino per chi contrafara» [fig. 4]






Dico subito che non entro nel merito di questi vitigni su cui tornerò in altra occasione. Ciò che, al contrario, interessa è l’annotazione per cui, tra i tanti vitigni esistenti, la città di Lanciano ne ammette solo cinque, (Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio, Malvasia), escludendo gli altri. Ecco allora l’aspetto rilevante. Lo statuto in questione lega alla sola commercializzazione del prodotto l’indicazione filogenetica del vitigno. Sappiamo, inoltre, che, sulla base del Libro degli affitti (1747) della Camera Baronale di Castiglione alla Pescara (oggi a Casauria) si pagava l’affitto «per il Moscatello alle Coste di San Felice»; non sappiamo, però, se si tratta della stessa specie di quella menzionata a Lanciano. In buona sostanza, nell’un caso o nell’altro, va sempre ricordato che il moscatello, insieme con le altre cultivar menzionate in questo intervento, aprono a un tentativo di restituzione storica della biodiversità agricolo-commerciale della vite in Abruzzo.

Le cultivar di cui stiamo parlando sono state vinificate in passato. Anzi, sulla base dei protocolli del notaio vastese del Cinquecento Gio.Battista Robio stipulati tra contraenti del traffico interadriatico Vasto-costa Dalmata ho potuto ricostruire una breve classificazione valutativa sul gusto, circa l’antico vino commercializzato (con il linguaggio tipico dell'assaggiatore, non del sommelier): «3 dicembre 1547, 6a ind. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 19 marzo 1548, 6a ind. / vini boni et clari; 5 aprile 1548, vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 21 luglio 1548, vini boni clari boni coloris meliorisque saporis; 12 Januarij 1551, vini boni clari et boni coloris ac saporis; 9 martij 1551 vini boni  clari bonique coloris et saporis; Die 9 mensis mai 1551 vini boni clari. Ciò vuol dire che, rispetto a questi atti, il sommelier contemporaneo si troverà di fronte ai seguenti indicatori: (dal più complesso al più semplice) 1. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 2. vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 3. vini boni clari bonique coloris et saporis; 4. boni clari (per brusco – come profilato al punto 1 – si intende acidulo, aspro di sapore).

Occorre rilevare, tra l’altro, che la Carta dei Suoli della Regione Abruzzo scala 1:250000 (2006) individua, dal punto di vista pedologico, l’area di contrada San Biagio (originaria dell’uva del Vasto) come «superfici terrazzate sommitali ampie, reincise. Substrati costituiti da sedimenti ghiaioso-sabbiosi». Ciò implica che, sul piano agricolo, quei suoli costituiscono l’83% del totale, con il 54% destinato all’arborato (uliveti e vigne). Le stesse aree con le cultivar superstiti della San Francesco (dagli ultimi ortolani che la conoscono chiamata la francese) segnalatemi dall’amico produttore vitivinicolo Domenico La Palombara sono localizzate alla Canale (molto importanti risulterebbero altre identificazioni), i cui terreni rispondono alla stessa classe pedologica. Le foto inviatemi da Domenico sono relative alla fase di invaiatura (III decade di luglio), in attesa della maturazione (I decade di settembre) [fig. 5].


 
Fig. 5: Vasto, loc. La Canale: uva San Francesco (invaiatura)

E proprio qui, dall’invaiatura, mi auguro che possa iniziare un nuovo percorso per questo sconosciuto (ai più) «liquore di Dioniso».









lunedì 1 luglio 2019



TRA MERIDIANI E PARALLELI: IL MONUMENTO DI TERMOLI

di Luigi Murolo

 

Il monumento di Termoli
Intriga potere vedere tracciato sulla terra il segno visibile del punto immaginario che scandisce il tempo orario quotidiano dell’ex-sistere contemporaneo nell’Europa centro-occidentale (è il l’arco centrale della zona [UTC+1] compresa tra 7,5° E e 22,5° E che definisce la prima ora legale). Intriga il pensiero di poter trovare a pochi passi da noi, nella continua mutevolezza del piano sabbioso, la traccia concreta di quel punto di incontro tra meridiano e parallelo che la comunità scientifica ottocentesca ha riconosciuto essere il primo fuso orario dopo il meridiano zero di Greenwich. Singolare, insomma, poter osservare gli effetti di quella Conferenza internazionale dei meridiani tenuta a Washington nel 1884 che avrebbero trovato applicazione in Italia solo a partire dal 1° novembre 1893. In effetti, suddividere i gradi dei meridiani (360) per le ore di una giornata (24) fissa in 15° gradi lo standard per la definizione di un fuso. Sicché il primo fuso che si sarebbe riscontrato a est di Greenwich poteva essere solo il 15° meridiano che, attraversando Termoli, si ricongiunge all’Etna – il cosiddetto Termoli-Etna – (quello di Vasto, al contrario, è posto sulla long. 14°42’30” E). Come si può capire, parlo sempre del medesimo meridiano che, nella località di Rio Vivo, incrocia il 42° parallelo. Quello stesso parallelo dove è allineata Chicago e che, nella cultura nordamericana, è stato definito, «una linea mitica sulle mappe che taglia attraverso il cuore degli Stati Uniti». Vale a dire, un suggestivo richiamo al medesimo locus letterario che John Dos Passos aveva utilizzato per titolare l’omonimo suo romanzo sull’America del proibizionismo. Ricordo di aver letto il libro sul finire degli anni Sessanta, dopo aver seguito nel circolo del cinema della mia città un ciclo di film su Charlie Chaplin e sui tempi moderni. E una frase che mi aveva fortemente colpito (e in cui mi riconoscevo) recitava pressappoco in questi termini: «volevo essere a casa ma non avevo casa».
Il segno del meridiano Termoli-Etna
 

In effetti, nel magico titolo di Dos Passos, c’era tutto il senso dello spaesamento di un ragazzo alla ricerca di un qualcosa che non riusciva a afferrare. Un segno immaginario che fissava il proprio orizzonte di riferimento in un dove di cui ignorava la via. Ma quel diciottenne non avrebbe mai pensato di poterlo trovare, molto più avanti negli anni, visibile nelle vicinanze della città in cui abitava e in cui avrebbe continuato a abitare.

In ogni caso, di là dall’evocazione di suggestioni personali, il monumento eretto sulla spiaggia di Termoli va ben oltre la sua denominazione allusiva: «Il Sogno». È «Il Sogno» dell’A.G.I.T., (Associazione Geometri Italiani Topografi) che ha voluto realizzare sulla Terra il punto di incontro tra spazio e tempo, il qui e l’ora, l’hic et nunc, il «confine» che determina l’UTC, vale a dire il Tempo Coordinato Universale dell’Europa centro-occidentale che, in un punto dello spazio terrestre ben definito, regola il tempo civile di tutte le attività umane che si svolgono sul nostro pianeta.

Il segno del 42° parallelo
In buona sostanza, dal 5 aprile 2014, un’installazione realizzata in pietra lunare di m 7 d’altezza x m 4 di larghezza che sembra dare corporeità a ciò che Kant aveva chiamato forme dell’intuizione sensibile (spazio e tempo, per l’appunto), vale a dire le strutture apriori del soggetto che, nelle intuizioni dei dati sensibili, pongono le condizioni di conoscenza dell’oggetto. Vale a dire, il limite del conoscere postulato dalla ragione. Ma c’è di più. L’idea di confine che si realizza nel monumento termolese ha qualcosa di straordinariamente interessante che richiama alla memoria ciò che Heidegger ha espresso nel colloquio di Darmstadt del 1951 dal titolo Costruire, abitare, pensare: «Un confine non è quello che mette fine, ma come già intendevano i Greci, il confine è il dove del principio della presenza di una cosa». Già il principio dello spazio-tempo di Termoli comincia ad avere un dove, la presenza, nel momento in cui la sua traccia è fissata sulla Terra. Così come tutto ciò che esiste si definisce in base ai limiti che delineano una forma. Il monumento di Termoli è la forma dell’UTC+1 che lo rende intellegibile agli abitatori del tempo in uno spazio. E come tutte le idee, cominciano a sussistere nel momento in cui sono viste.

Ma riusciremo mai, noi contemporanei, a comprendere il senso di questa cosa? Per quanto mi par di capire, la domanda non ha risposta.

 

martedì 18 giugno 2019




 
A PROPOSITO DI FOTOGRAFIA OTTOCENTESCA:
MICHETTI A MIRACOLI DI CASALBORDINO:
di Luigi Murolo
 
Lo storpio

                                       


 
Com’è noto, della festa della Madonna dei Miracoli in quel di Casalbordino, la più grande rappresentazione letteraria resta quella di Gabriele D’Annunzio descritta nelle memorabili pagine di Trionfo della Morte (1894). Dedicata l’opera al gran sodale Francesco Paolo Michetti, essa trova restituzione iconica proprio nei formidabili reportage fotografici che, in varie fasi, il pittore di Francavilla realizza in poco più di un decennio – dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento fino agli inizi del Novecento (in particolare, dal 1895 al 1900) –. Funzionale alla restituzione su tela di un Abruzzo mitico, la camera fotografica michettiana indaga preminentemente l’antropologia dei rituali religiosi.

Più che seguire il meccanismo verista centrato sulla regressione dell’autore, Michetti legge la realtà umana di Casalbordino come sua interpretazione; l’interpretazione dell’artista. Sovrapponendosi in questo modo all’ “archeologia” attiva dell’antico cerimoniale originato dall’apparizione mariana al veggente di Pollutri Alessandro Muzii, egli vede le cose raffigurate come “fanatismo” popolare (in piena sintonia con la prospettiva ideologica dannunziana). Che connesso con il significato cristiano di festa (vale a dire solennità esclusivamente religiosa che congrega la multitudo fidelium per levar canti e preghiere insieme, sciogliere voti, impetrare grazie), restituisce plasticamente il gesto dei corpi che disegnano l’universo selvaggio della follia. Se è vero, infatti, che, nel mondo classico, il folle rappresentava la voce del divino, è ancor più vero che, per la décadence dannunzio-michettiana, l’occhio del pittore-fotografo scorge nella nuda vita dei corpi abbandonati il senso dell’homo sacer affidato al Dio pietoso. E qui, nelle immagini della decomposizione vivente della carne, la scrittura dannunziana di Trionfo della morte accompagna in controcanto la voce narrante:


«Era uno spettacolo meraviglioso e terribile, inopinato, dissimile ad ogni aggregazione già veduta di cose e di genti, composto di mescolanze così strane aspre e diverse che superava i più torbidi sogni prodotti dall’incubo».


Gli scatti michettiani hanno la forza di documentare quei resti “archeologici” immateriali delle arcaiche forme devozionali di pellegrinaggio sviluppatesi dopo il 1576, l’anno dell’apparizione – al settuagenario Muzio da Pollutri – della Vergine adagiata sopra un olivo e attorniata da un coro d’angeli. Un’immagine che lo stesso Pier Paolo Pasolini, in una sequenza di Edipo Re (1967), avrebbe utilizzato per restituire al mito ellenico – nel suo stile regressivo – l’incontro tra Edipo e l’Oracolo.
Una suggestione, insomma, ma solo una suggestione, che, pur nel disincanto della modernità, lo stesso visitatore odierno può provare nel rapporto personale che sa intessere con il genius loci.

Sulla Strada

Catasto onciario Monteodorisio