PREMIO
VASTO 2019: EMILIO TADINI TRA ARCHEOLOGIA E PITTURA
di Luigi
Murolo
Fig. 1 Emilio
Tadini, Archeologia (1973)
acrilico su tela (cm 100x81)
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Da
tale punto di vista, tutta la postmodernità, mossa dal disincanto per le
teleologie di ogni tipo e per ogni finalismo storico, affida alla citazione e
al riuso delle forme moderne, le possibilità del proprio sussistere. Ed è con
questo modello, con quell’Emilio Tadini che ne è stato geniale interprete, che
la pop art italiana si trova a definire la propria modalità di essere-nel-mondo.
Le forme non hanno un telos, un fine. Sono disponibili in ogni momento.
Come le tutte le altre res.
Le
combinazioni possibili tra queste sono infinite. Ma sono solo alcune che si
affermano in un determinato periodo. Definibili come epistemi, configurano
le strutture originali di una determinata epoca. Ma come si riconoscono per la
Pop Art? Lo storico dell’arte Maurizio Calvesi procede in questi termini, a
partire dagli anni Sessanta e dall’esperienza della cosiddetta Scuola romana
di Piazza di Spagna: «De Chirico è stato molto amato dagli artisti
della Pop Art che gli hanno reso omaggio in molti modi, da Ceroli a Festa, a
Schifano, Marotta e Pascali, senza dimenticare Oldenburg, Lichtenstein o Warhol
in America. Fu bellissimo quando de Chirico sembrò accettare quegli omaggi
chiudendo la sua lunga e interessante fase barocca per iniziare lo splendido
periodo della sua Neometafisica degli ultimi anni di vita, con
un’esplosione di luce e una nuova felicità cromatica. I soli gialli sul
cavalletto, i palloni e i giocattoli colorati, le liete cabine dei bagni
misteriosi, i mobili nella valle, il mare di Ulisse che appare nella stanza
sono entrati così in diretta sintonia con la Pop internazionale come un
gioioso, giocoso e profondo segno di armonia». Ma nell’episteme del pop
– sempre secondo Calvesi – è riscontrabile la stessa attiva presenza del
futurismo di Umberto Boccioni.
Ora,
se è questa la prospettiva «archeologica» che opera nelle tele di Emilio Tadini
– e non abbiamo alcun motivo per dubitarne se è vero che l’opera di proprietà
del Premio Vasto datata 1973 ha per titolo Archeologia –, è ancor
più vero che, tra il 1967 e il 1972, l’artista realizza un ciclo di dipinti
intitolato Archeologia con De Chirico. E in questo caso, va detto, che,
rispetto all’acrilico vastese, qui è esplicito il richiamo alla lezione del maestro
delle Muse inquietanti. Del resto, lo stesso De Chirico si era ispirato,
con grandi fusioni da gesso in bronzo lucidato, al tema del Grande
archeologo (un esemplare dei quali è stato esposto alle Scuderie
d’Avalos in occasione della 50a edizione del Premo Vasto)
[fig. 2]. Per questo artista, l’archeologo non era solo forma, ma anche
contenuto. In lui era vivo lo spirito della modernità con la sua corrispondente
dialettica. Nel cuore delle figure, prendevano corpo i resti dell’antichità.
L’archeologo era realmente l’archeologo: colui che scopre la classicità
nascosta riportandola alla luce. Come accade per la pittura metafisica che
porta allo scoperto il lato non definito delle res. Cosa completamente
diversa da Tadini che, fin dal titolo e nel riuso esplicito dei pezzi
dechirichiani nelle opere realizzate tra il 1967 e il 1972, cerca il rifermento
forte della pop art italiana (non ancora l’episteme). Ad
esempio, nell’ultima retrospettiva sul pittore milanese recentemente allestita
dalla Fondazione Marconi nella capitale lombarda (chiusa il 19 luglio di
quest’anno, giorno inaugurale della mostra vastese), una tela restituisce senza
alcun nascondimento la figura del Grande Archeologo [fig. 3]. Al
contrario, l’acrilico vastese posseduto dal Premio Vasto – come già detto,
datato 1973 – segna una netta rottura con il suo recente passato. Tadini opera
una trasposizione metonimica del contenuto dechirichiano. Esso diventa
esclusivamente forma che apre all’episteme della contemporaneità (da
questo punto di vista sarà stata determinante la lettura de Le parole e le
cose, il capolavoro di Michel Foucault pubblicato in Italia nel 1967.
Magari con l’influenza interpretativa prospettata dal francese per Las
meninas di Velázquez, non certo per quella suggerita da Picasso nel 1957.
Ricordo, tra l’altro, che lo stesso Pasolini ne aveva offerto una splendida lettura
in Che cosa sono le nuvole?, un corto del 1968).
Fig. 2 Giorgio
De Chirico, Il grande archeologo (1970)
bronzo lucidato, fusione da
gesso (cm 95x49,5x47)
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Fig. 3 Emilio
Tadini, Archeologia con De Chirico (1972)
acrilico su tela (cm 146x114)
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E allora, mi chiedo: Foucault,
dunque, alla base teoretica del pop tadiniano? Posso solo rispondere: le condizioni
ci sono tutte.